IL SIDERURGICO DI TARANTO Il video
Gli ispettori: emissioni anomale all’Ilva
Ferrante: collaboreremo. Secondo i tecnici comporterà un nuovo indotto e la
richiesta di molta manodopera
dati soprattutto sulla produzione correlata alle emissioni di sostanze
inquinanti. Nel vertice di ieri in Procura tra magistrati e curatori giudiziari
degli impianti Ilva ritenuti pericolosi per l’ambiente, e per questo sequestrati
(ma ancora in funzione), non sono mancati ulteriori inviti alla direzione dello
stabilimento (in quella sede rappresentata da Bruno Ferrante nella sua seconda
veste di custode del tribunale), a rimodulare metodi e velocità di esercizio al
fine di rendere al minimo il rischio di inquinamento prima di arrivare
all’obiettivo finale della completa ambientalizzazione. «Ci hanno dato delle
indicazioni precise, operative, con obiettivi che sono quelli del contenimento
delle emissioni. Adesso spetterà ai custodi tecnici, ed al sottoscritto, operare
collegialmente riferendo ovviamente al procuratore della Repubblica, Franco
Sebastio, e operando nel senso da lui indicato», ha detto Ferrante lasciando il
palazzo di giustizia inseguito dai cronisti e telecamere.
e rassicurante commentando con i giornalisti lo stato d’animo che si vive
all’interno dello stabilimento. «Durante le pause per il pranzo ci incontriamo
spesso con i lavoratori che esprimono la loro preoccupazione mentre noi li
rassicuriamo circa il loro futuro», ha detto l’ex prefetto che è stato il primo
a lasciare la riunione non prima di affrontare la spinosa questione della
facoltà d’uso degli impianti.
poi dal Riesame – ha precisato Ferrante – parla del sequestro degli impianti ai
fini del risanamento e della messa in sicurezza. Nessuno ha mai pensato alla
facoltà d’uso, non è un termine che compare ma si parla di utilizzo a quei
fini», ha concluso il manager evitando facili polemiche. Al summit erano
presenti, oltre a Ferrante, gli altri tre curatori, gli ingegneri Barbara
Valenzano, Emanuele Laterza e Claudio Lofrumento, e il comandante del nucleo
ecologico di Lecce, il maggiore dei carabinieri Nicola Candido. Al completo
anche il quartetto di magistrati guidato dal procuratore capo, Franco Sebastio,
il suo aggiunto Pietro Argentino e i sostituti procuratori, Mariano Buccoliero e
Giovanna Cannarile.
curatori frutto delle loro ispezioni fatte in questi giorni, anche di notte,
all’interno dell’acciaieria. Non poche, comunque, le criticità riportate nel
corposo dossier consegnato al procuratore Franco Sebastio. Tra queste l’incendio
del nastro trasportatore di tre giorni fa, quando una colonna di fumo si è
levata per circa mezz’ora creando apprensione e panico ed anche un paio di
slooping, il fenomeno che sprigiona in atmosfera gas inquinanti dovuto
all’utilizzo improprio delle torce al servizio delle acciaierie. Un altro
aspetto di novità contenuto nella relazione dei curatori, rivelato dal
procuratore Sebastio nel suo breve incontro con i giornalisti, è la parte che
riguarda l’ambientalizzazione degli impianti e il relativo impiego di forza
lavoro. «Per eseguire tutti gli interventi previsti – ha riferito Sebastio – i
tecnici hanno calcolato un considerevole vantaggio dal punto di vista lavorativo
e la nascita di un nuovo indotto». Niente, invece, sui tempi necessari. «Come
faccio a dare ai curatori una scadenza considerata la complessità dei lavori
necessari?», ha risposto Sebastio.
tribunale blindato e protetto da decine di forze di polizia, carabinieri e
vigili urbani che hanno assicurato una cintura di sicurezza forse eccessiva
rispetto alle presenze di pubblico composte quasi esclusivamente da esponenti
dell’informazione.
2012
Ilva, la busta passa da Archinà a Liberti
Guarda il video alla stazione
di servizio
Per gli inquirenti è una mazzetta da 10mila euro
Il perito si difende:
«Conteneva la bozza di un accordo»
26 marzo 2010. Girolamo Archinà, allora responsabile delle relazioni
istituzionali Ilva, è appena arrivato nell’autogrill tra Taranto e Bari
all’altezza di Acquaviva delle Fonti. Porta con sè una busta bianca: per i
finanzieri, che da mesi lo intercettano, quella busta contiene 10mila euro in
tagli da 100 e da 50. I militari ritengono che sia una «mazzetta» per
ammorbidire una perizia disposta dalla procura di Taranto. Sul retro della
stazione di servizio, l’ex pr della famiglia Riva, incontra infatti Lorenzo
Liberti, all’epoca perito scelto dal pm Mariano Buccoliero per studiare le
emissioni di diossina dal camino E312. Archinà e Liberti chiacchierano
passeggiando con circospezione. La busta passa dalle mani del dirigente Ilva a
quelle del perito, tutto catturato dalle telecamere di sorveglianza
dell’autogrill e sotto gli occhi dei finanzieri che seguono a distanza
l’incontro. Gli investigatori decidono di non procedere all’arresto in flagranza
di reato: le intercettazioni stanno svelando gli intrecci tra politica e
imprenditoria sulla gestione dell’ambiente a Taranto. Inquinamento, ma anche
discariche, rifiuti, energie rinnovabili e tanto altro. Patti scellerati,
secondo gli inquirenti, che non vanno bruciate per raccontare la storia di un
«ambiente venduto».
politici locali, funzionari pubblici e imprenditori. L’incontro tra Archiná e
Liberti viene peró stralciato per confluire nell’indagine della magistratira sul
disastro ambientale a Taranto: 91 pagine di informativa che svelano solo una
minima parte delle pressioni dei vertici del siderurgico per tenere le
informazioni sgradite «sotto coperta». Liberti sarà ascoltato dal pm Remo
Epifani solo un anno e sette mesi più tardi: «Quella busta – spiegherà al
magistrato – conteneva la bozza di un accordo tra Ilva e Politecnico di Bari (in
cui Liberti insegna, ndr)». Il docente universitario resta peró sotto indagine,
insieme ad Archinà, per corruzione in atti giudiziari. Per l’Ilva i 10mila euro
ritirati da Archinà il 26 marzo sono un’offerta per la Chiesa di Taranto.
Rabbia e veleni di una
città che vive e muore di Ilva. E gli operai con i figli malati: “Sì, aveva
ragione chi protestava”
di CONCITA DE GREGORIO
figli bambini e ora sanno perché. Che non possono mangiare il formaggio delle
loro pecore né le cozze del loro mare. Che i pediatri negli ospedali congedano
le puerpere raccomandando omogeneizzati al posto delle prugne cotte. E latte in
polvere anziché quello del seno perché nella frutta degli alberi e nel latte
delle madri c’è il veleno, e ora sanno qual è. Cos’è cambiato sta tra la culla e
il tavolo da pranzo, dentro le vite di ciascuno. I figli che impallidiscono di
leucemia, il cibo che sparisce dai piatti. L’unica cosa che conta, l’unica cosa
seria: nascere e crescere i figli, mangiare.
dalla posa della prima pietra della Fabbrica, la voce di quelli che trenta,
venti, dieci anni fa dubitavano e obiettavano, poi scrivevano e chiedevano, poi
protestavano, poi urlavano piangendo e maledicevano – pazzi, esagitati,
estremisti, anime belle ambientaliste, nemici del lavoro e del popolo – è così
che poco a poco quella voce sottile e molesta è diventata la verità di tutti. Se
si muore, a Taranto, è colpa del “minerale”. Così lo chiamano le vedove
analfabete che ti aprono casa per mostrarlo che a chili si accumula nero sotto
le loro scope, le madri che lavano la faccia ai figli al ritorno da scuola,
quando c’è vento i bimbi arrivano a casa con la faccia che brilla come se
fossero truccati per andare
in discoteca. Il minerale. I residui di ferro che luccica, la polvere nera
che vola e si fa aria, entra nei polmoni e poi nel sangue. Nel minerale il
veleno: la diossina che per decenni si è mangiata gli uomini da dentro,
mascherata da fatalità destino malasorte. A volerci credere, a doverci credere
“perché noi lo sentivamo il rumore la notte e la vedevamo la polvere nera ma, ci
crede?, ci faceva piacere perché erano il rumore a la polvere che ci davano da
vivere. Gli uomini uscivano per andare a lavorare e portavano i soldi a casa.
Che altro dovevamo volere”.
Todisco, il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Taranto che ha
disposto il sequestro dell’area a caldo del-l’Ilva, e la bonifica che deve
passare per il blocco della produzione. Un’acciaieria non si spegne staccando la
spina, però. Ci vogliono mesi, e in questi mesi – proprio questi, adesso –
ci sono i ministri che scendono in Puglia e trattano coi Riva, i padroni,
improvvisamente e finalmente inclini a versare milioni per la bonifica. Ci sono
i politici che dispongono ordinanze (“vietato passeggiare e far giocare i
bambini nelle strade del quartiere Tamburi”, per esempio, provate a immaginare
come suona alle orecchie di chi ci abita). L’imminente e prossima distruzione di
venti tonnellate di cozze alla diossina, pescato per un valore di quattro
milioni di euro: la rovina. Le signore della borghesia tarantina che manifestano
per strada, i giornali e i siti che denunciano le mazzette, la corruzione, il
silenzio pagato perché è chiaro – si mostra ora con l’evidenza delle prove –
che il silenzio delle istituzioni, dei partiti e dei periti, di questa Chiesa
gommosa e opulenta è stato comprato, negli anni, dai Riva. Col lavoro che
avevano da distribuire agli ultimi e coi soldi in busta a tutti gli altri. “Non
prenderemo più donazioni dal-l’Ilva”, dice il nuovo vescovo con questo
archiviando come peccato veniale i milioni di lire e poi di euro che i suoi
predecessori, ultimo monsignor Papa, hanno incassato nei decenni con causali
verosimili e persino meritorie: ristrutturare l’oratorio, rifare la facciata
della chiesa, finanziare la mensa dei poveri. Assegni da 300 mila euro. In
cambio, tolleranza. Braccia che si allargano e occhi al cielo, cosa vuoi figlia
mia, fatti forza, è il volere del Signore.
viverci qualche tempo che non sia il tempo di girare due riprese per la tv, ti
fermano per strada e ti dicono in dialetto e in italiano che quel che c’è di
nuovo non è una sentenza, una perizia, un controllo che di notte quando la
fabbrica brucia come un incendio non si è fatto – in cinquant’anni – mai.
No. Quel che c’è di nuovo è un piccolissimo sollievo figlio del contagio. I
predicatori solitari, i ‘pazzì e i ‘fanaticì che giravano coi cartelli e
affiggevano targhe sui muri dieci anni fa oggi si voltano attorno e con un
sorriso di sollievo accolgono chi arriva. Chè poco a poco anche gli operai
cominciano a scendere dai balconi giù per strada: quelli che “si deve vivere,
l’Ilva è lavoro”, quelli che alle assemblee non c’erano mai perché facevano gli
straordinari per arrivare a 1500 al mese e che si fottano le chiacchiere. Loro,
gli operai. Ora ci sono, non tanti ma tanti, alle riunioni e ai cortei fino in
prefettura, ad ascoltare Michele Riondino il giovane Montalbano della tv che
davanti al mare caraibico degli scogli di San Vito dice “io sono nato dove siete
nati voi, ai Tamburi, e vi dico che dobbiamo fare noi quello che non hanno fatto
mai i sindacati, i partiti di sinistra. Siete tutti, siamo tutti sotto ricatto.
I tarantini sono sempre stati merce di scambio, numeri che valgono solo quando
c’è da votare. L’Ilva ha fabbricato acciaio e paura. Ma l’altro giorno, in
piazza, ho visto un’Apecar di operai che sembrava un carrarmato. E’ quello che
serve, servite voi: è venuta l’ora di farci sentire”.
ascoltarlo, un’ovazione. Può più il Montalbano della tv di cento professori,
perizie, tribunali. I Tamburi, dove è nato Riondino, è il quartiere che confina
con la fabbrica. Le case erano lì da prima, la gente negli anni Sessanta ci
andava a vivere per far respirare i figli, perché era un po’ più in alto e c’era
l’aria buona. Tamburi come il rumore di tamburi che faceva l’acqua
nell’acquedotto romano. Oggi è il posto dove non si può passeggiare, ha detto il
sindaco. Le case toccano il muro di cinta dell’Ilva e quello del cimitero. E’
tutto lì, quello che serve per vivere e per morire: le tombe affacciano in
fabbrica, ci si resta anche da morti. Per strada cani randagi, quasi cento
taverne dove andare a ubriacarsi la sera, deserto di uomini, cartelli di
“vendesi” ovunque. La gente se ne va. Ha venduto casa Franco Fanelli, 55 anni,
dopo che hanno diagnosticato la leucemia a sua figlia Annachiara, 13. “Quando
siamo arrivati in ospedale ho trovato nella stanza un operaio che conoscevo
bene, era uno di quelli che quando manifestavamo per strada ci guardava dalla
finestra e chiudeva le tende. Era lì con la figlia malata di tumore. “Dobbiamo
far chiudere tutto”, mi ha detto in dialetto. Ora lo dici?, gli ho risposto. E
lui: “che ne sapevamo, prima?”. Ecco, ora lo sa”.
Leporano, lontano dal minerale. Annachiara ha finito la chemio e porta un filo
di trucco, forse l’anno prossimo tornerà a ballare. Le sono ricresciuti i
capelli, erano biondi ora sono neri, pazienza. Ride, esce, il ragazzino
l’aspetta. Il rosario di suo padre Franco è questo: morti di tumore entrambi i
genitori, morta una sorella e malati (intestino, prostata, fegato) altri tre
fratelli di nove, quattro su nove. morta la prima moglie Antonella, “un sarcoma
che aveva 18 anni, io 24, l’ho sposata due mesi prima che se ne andasse, era il
suo desiderio”. Malata di leucemia la figlia. Fanelli sono vent’anni che
combatte il veleno dell’Ilva che fa morire di cancro vecchi e neonati, famiglie
intere. “Ho calcolato che sono morte 70 mila persone in 15 anni. Ma nessuno lo
dice, lo tengono nascosto. Qui a Taranto non c’è il registro dei tumori, lo sa?
Non le sembra pazzesco? E non c’è nemmeno l’oncologia pediatrica in ospedale.
Bisogna andare a Bari, o al Nord. Così quelli che si ammalano e muoiono fuori,
cioè quasi tutti, non entrano nel conto e le statistiche stanno a posto”.
All’ospedale di Taranto non c’è l’oncologia pediatrica. Al Moscati, che domina
l’Ilva dall’alto, i volontari dell’Ail, associazione italiana leucemie, hanno
allestito con le donazioni una stanzetta minuscola, due letti e una culla, per i
bambini. “Quasi clandestina”, sorride Paola D’Andria, volontaria Ail. In corsia
saluta Anna, che ha vent’anni le unghie rosse la testa calva e la febbre, oggi,
“viene spesso dopo l’autotrapianto”. “Quello che succede e quello che non
succede, a Taranto, è voluto: è tutto voluto.
figli. Ma fino a ieri ci guardavano con sospetto tutti. Anche la politica, che
delusione la politica. E dire che il sindaco sarebbe un pediatra”. Il sindaco,
Ippazio Stefàno, è un pediatra. Uomo di Vendola, sostenuto da una lista civica,
chi meglio di lui avrebbe potuto capire, sapere. E invece sulla sanità si sono
arenate anche tante speranze del “rinascimento pugliese”, che certo Vendola ha
fatto quella legge che ha abbassato drasticamente il tasso di diossina ma è come
svuotare con un tappo l’acqua del mare. E’ tardi, è poco. E ora Don Verzè è
morto e il San Raffaele forse non si fa più, che doveva sorgere proprio a
Taranto, “ma noi abbiamo bisogno di un ospedale privato o di far funzionare
De Marzo. Un uomo serissimo e inflessibile, una miniera di dati e di sapere. Per
anni dirigente Ilva, prima responsabile della manutenzione dell’area ghisa,
quella più pericolosa, poi dell’intero stabilimento. Un “pentito” dell’Ilva. “Un
giorno, qualche anno fa, mi hanno chiamato da Peacelink per chiedermi un parere
sui dati della diossina. E’ stata una folgorazione. Ma come? Ho lavorato tutta
la vita sotto quella ciminiera e di questi dati non sapevo nulla? Ho
controllato, ho capito, mi sono sentito ingannato, mi sono messo al lavoro
perché non si ingannino gli altri”. De Marzo guida Altamarea, associazione
fucina di interrogazioni al ministero, alle commissioni parlamentari, esposti in
prefettura, al sindaco e al governo. Tutto quel che c’è da sapere è lì. Del
resto è da Peacelink, con cui collabora, che tutto questo è partito.
formaggio delle masserie fatto fare da loro: erano pieni di diossina, i
formaggi. Sono state abbattute migliaia di pecore, gli allevatori risarciti con
un’elemosina hanno fatto ricorso, il tribunale ha disposto una sua perizia ed
ecco finalmente i dati, questi non di parte. I dati dei periti del Tribunale. La
diossina nel latte è a livelli altissimi e ha un’impronta digitale identica, è
sempre la stessa. Da dove arriva?, si sono chiesti all’ombra delle canne fumarie
bianche e rosse. L’inchiesta di Patrizia Todisco è cominciata così. Sotto lo
sguardo di Franco Sebastio, il capo della Procura, che da tutta la vita batte
sulle ombre dell’Ilva: se a questo siamo è per l’ostinazione di chi, quando non
si usava, non ha avuto paura. Quando non si usava è quando – dieci anni fa –
Giuseppe Corisi, operaio, ha fatto mettere davanti a casa sua, in via de
Vincentis ai Tamburi, quaranta metri dalla fabbrica, una lapide che è ancora lì,
annerita. “Nei giorni di vento da Nord veniamo sepolti da polveri di minerale e
soffocati da esalazioni di gas provenienti dalla zona industriale Ilva. Per
tutto questo gli abitanti MALEDICONO coloro che possono fare e non fanno nulla
per riparare”.
e l’impotenza insieme. Giuseppe è morto l’8 marzo di quest’anno per un tumore ai
polmoni, a 64. Non gli hanno riconosciuto la malattia professionale, la famiglia
non avrà indennizzo. Una fatalità. Aprono la porta di casa Graziella, la vedova,
le figlie Stefania e Sabrina, il genero Luciano, i nipoti Angelo, Giuseppe,
Suami e Gaia. Angelo, 13 anni, racconta che il giorno prima di morire il nonno
era seduto lì, su quella poltrona, e lo aiutava a scrivere il tema “Parla di una
persona che ammiri”. “Io avevo deciso di farlo sul nonno, che ha combattuto
sempre e – ho scritto – combatte ancora contro l’inquinamento del minerale
che ci uccide. Nonno mi ha detto ‘Angelo, prometti che dopo potrò contare su di
te, che non ti arrenderai’. Io non ho capito dopo cosa, perché nonno stava bene.
Però l’indomani, il lunedì, è andato all’ospedale e il pomeriggio è morto e io
non l’ho visto più, l’ultima volta è stato su quella poltrona e rideva”.
L’ultimo giorno, il lunedì, Giuseppe Corisi ha telefonato a casa e ha chiesto a
sua moglie che affiggessero sotto la loro finestra, proprio davanti alla lapide
della maledizione, un’altra lapide. L’aveva fatta preparare dagli amici.
Graziella, la vedova: “Voleva che ci fosse scritto il numero. Non il suo nome,
ma il numero. ‘Morto numero … per neoplasia polmonare’. Ma il numero non c’è
perché non si sa quanti sono. Non lo possiamo sapere. Allora ha detto: mettete
ennesimo. Mettetela subito”.
gli otto Corisi, si affacciano su quella lapide. Qui viveva Giuseppe, “ennesimo
morto per neoplasia polmonare”. Dietro un’ipocrita inutile barriera di alberi
– le “colline ecologiche”, buone per la coscienza di qualcuno – che separa la
casa dalle montagne di polvere di acciaio. Nel ’60 si decise di collocare a
ridosso della città e non al lato opposto della fabbrica, come sarebbe stato
logico e dovuto, la zona di stoccaggio e di prima lavorazione a caldo. Si
risparmiava qualche metro di nastro trasportatore dei materiali dal porto, così.
Il “peccato originale”, quella decisione, occultata dall’immediata costruzione
della basilica di Gesù divin lavoratore. Una grande chiesa, un grande mosaico
con Gesù circondato di operai. Che benedizione, il lavoro. I Corisi, dalla
finestra sulla lapide che MALEDICE, salutano.
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